di Guido Stazi

Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti fu varata la prima legge antitrust, lo Sherman Act, per impedire che imprese troppo grandi monopolizzassero i mercati e, tramite l’accumulo di enormi ricchezze, accrescessero le diseguaglianze e condizionassero la democrazia americana

Allora le imprese che monopolizzavano l’economia statunitense erano le grandi compagnie petrolifere e ferroviarie; adesso ai tempi della rivoluzione dei big data, sono le piattaforme digitali, dinamiche e innovative, in grado di operare in modo globale e flessibile su molti mercati, unite dalla capacità di massimizzare e utilizzare al meglio i dati. Negli USAvengono raccolte in un acronimo: FAANG cioè FacebookAppleAmazonNetflix e Google.

I dati di bilancio di queste cinque imprese, messi insieme danno la dimensione di un agglomerato economico e finanziario impressionante

• 684 mld $ di ricavi
• 85 mld $ di utile netto
• 262 mld $ di cassa e titoli
• 405 mld $ di patrimonio netto
• Debiti di fatto assenti
• 2495 mld $ di capitalizzazione presso la borsa di WallStreet

Gli straordinari fondamentali economici di FAANG derivano innanzitutto dalle grandi capacità di visione e innovazione dei fondatori, che hanno inventato nuovi modelli di business o trasformato con l’utilizzo della tecnologia business tradizionali, travolgendoli.

Ma è l’accumulo e la capacità di strutturare e profilare tramite algoritmi le enormi quantità di dati raccolti nel corso delle varie attività a costituire, consolidare e rendere difficilmente attaccabile il potere di mercato delle loro piattaforme digitali.

Il reticolo dell’infrastruttura social, in parte condiviso dalle piattaforme digitali, composto dai nostri dati e dalle connesse elaborazioni algoritmiche, è il centro e il moltiplicatore del potere informativo ed economico di FAANG.

Sono evidenti gli impatti di questo potere multiforme e crescente sul mercato, sugli utenti, sulla sfera pubblica, sulla società civile e, in ultima analisi, sulla stessa democrazia.

Diversamente da quanto sostenuto da un amministratore di Google quindi, non basta un click per assicurare concorrenza e integrità dei mercati, soprattutto quando in gioco potrebbero essere posti non solo gli assetti economici, ma anche quelli democratici.

Appare quindi inspiegabile la benevola tolleranza con cui la politica, le istituzioni a salvaguardia del mercato e gli esperti di antitrust abbiano assistito, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, alla inarrestabile crescita delle grandi piattaforme digitali, cioè alla manifestazione più affascinante e potenzialmente più pericolosa del monopolio che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto.

Occorre, con urgenza, riannodare il filo della teoria e della pratica antitrust per affrontare la rivoluzione digitale: il compito spetta in primis alle istituzioni e agli esperti che si occupano di concorrenza, tornando alle radici costitutive originarie dell’antitrust.

Il che non significa abbandonare l’armamentarioantitrust che in più di un secolo giuristi ed economisti hanno costruito ed affinato, ma che si è rivelato inefficace a cogliere e frenare il potere di mercato dei big data; il tutto va però ripensato e riorganizzato rapidamente.

Sarà molto importante anche il contesto politico in cui il riposizionamento delle istituzioni che tutelano e regolano i mercati si troverà ad operare.

Contesto che in questi primi due decenni del nuovo secolo ha dovuto fare i conti con la seducente narrazione tecnologica e libertaria di internet, sostenuta dall’enorme potenza di fuoco lobbistica dei big data, cresciuti a dismisura utilizzando gratis le reti costruite dalle imprese di telecomunicazioni, i contenuti deibroadcaster e le notizie delle imprese editoriali; a tutti erodendo fino all’osso margini, pubblicità e copie vendute.

Negli Stati Uniti il Presidente Trump, via twitter, ha sferrato vari attacchi ai big data; recentemente anche una delle candidate alla presidenza, la senatrice democraticaElizabeth Warren, ha auspicato per ragioni antitrust un break-up, uno spezzatino diremmo noi, di Google e Facebook. Vedremo se l’intendance suivra, cioè se chi regola i mercati in quel paese riuscirà ad emergere da un lungo torpore operativo sotto l’impulso della politica.

In Europa Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza, ha inflitto sanzioni miliardarie a Google, premendo sul pedale antitrust dopo che anche la Commissione, al pari delle autorità statunitensi, avevaapprovato molte concentrazioni nel settore senza mai intervenire: Per citare solo le concentrazioni più note, Facebook nel tempo ha acquisito due tra i più noti social, WhatsApp e Instagram; Google ha incorporato DoubleClick e YouTube.

Nel 2014 Facebook acquisì WhatsApp per 19 miliardi di dollari nonostante quest’ultima fatturasse allora solo 20 milioni di dollari, ma aveva già 450 milioni di utenti che whatsappavano.DoubleClick al momento della fusione con Google era leader di mercato nei servizi di pubblicità online e rafforzò la posizione di assoluta preminenza che già allora aveva Google nella pubblicità online. Tutte le concentrazioni hanno sommato immensi data base nella disponibilità dei leader di mercato ed eliminato importanti concorrenti.

Come se non bastasse si affacciano da oriente le grandi piattaforme digitali cinesi, che non hanno neanche bisogno della via della seta per operare sui nostri smartphone e tablet: per non rimanere vittime dell’incipiente guerra tecnologica tra USA e Cina, non essendo riusciti a creare un ambiente favorevole alla nascita di piattaforme digitali continentali, un forte presidio antitrust a livello europeo e nazionale appare una scelta necessaria, sapremo poi se sufficiente.