Le ferme parole con cui Carlo Verdelli, direttore di Repubblica, ha denunciato il comportamento del ministro degli Interni Matteo Salvini nei confronti di un cronista del giornale ma in fondo di tutta la stampa, devono far riflettere. E non solo per motivi politici ma perché evocano quelle di Primo Levi sulla tendenza mai sopita in Europa e quindi in Italia, a voltarsi dall’altra parte. Ma oggi dove nasce questa indifferenza che a volte diventa apoteosi mediatica verso chi riesce ad essere più veloce e incisivo, o peggio prevaricatore? Io credo che nasca a scuola e che alla scuola vada rapidamente riassegnato il ruolo centrale nella nostra società. Perdiamo sapere come un colabrodo ma ci affanniamo a rincorrere i social sul terrazzo digitale, ignorando che le stesse fondamenta della comunità si stanno sgretolando. Qualche numero può aiutare a comprendere questo fenomeno. 

Tra il 2007 e il 2017 l’Italia ha visto un flusso in ingresso di 594.000 persone con titoli di studio medio e basso e un deflusso di 133.000 laureati o aventi master. Anche solo questo dato, ricordato da Alberto Quadrio Curzio, dovrebbe farci affrontare con diversi toni e una capacità di analisi che vada ben oltre gli schieramenti politici il problema delle migrazioni: è evidente che più che ad un’invasione siamo al cospetto di un impoverimento culturale. Uno scambio che va tutto a nostro svantaggio, visto che le regioni da cui si parte di più sono peraltro quelle più ricche e che ormai la nostra popolazione, a dispetto di quanto si pensi, è fortemente integrata, con un lavoratore e uno studente su dieci appartenente ad un altro paese. Eppure nonostante sia ormai assodato da tutti gli istituti di ricerca che più spendi per la scuola e più ti sviluppi, l’equazione che dovrebbe indurre qualsiasi stato a mettere l’istruzione al primo posto stenta da noi ad essere risolta. In questa graduatoria l’Italia si colloca infatti ben sotto la media mondiale, con una spesa formativa per alunno di poco più di 7.000 dollari e una ricchezza per abitante di 36.000 dollari. Davanti a noi tutti i paesi più sviluppati e non c’è a questo punto da sorprendersi. Spendiamo molto di più per chi a studiare non va da un pezzo. Il rapporto tra spesa in pensioni di anzianità e reversibilità e spesa sociale e la quota di popolazione con più di 65 anni, ci colloca infatti al penultimo posto, con una quota del 59% (spesa pensionistica) e del 22% (over 65 su abitanti totali), davanti solo alla Grecia e dietro a tutti gli altri. 

Qualcuno dovrebbe pur tenere i conti di questa bilancia culturale drammaticamente in deficit. I giovani freschi di Università e di master, per cui abbiamo speso miliardi di formazione, fanno la fortuna di tutti i nostri concorrenti quali la Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti. La divisione tra paese che resta e paese che va è perciò impressionante, perché chi governa pensa solo al primo e il secondo alimenta un esercito di indifferenti dentro e fuori i confini nazionali. Se si permette a oltre 130.000 laureati di lasciare l’Italial’attenzione verso le sorti della nostra società e verso ogni tipo di abuso sarà più flebile perché privata di voci libere, mature, prive di condizionamento. In una parola, consapevoli del loro ruolo di guida davanti a chi la voce e la consapevolezza la sta perdendo, convinti che non si può e non si deve voltare la faccia di fronte ad arroganza e ingiustizie. Proprio come ha scritto Levi. 

E siccome la fuga all’estero la si comincia a sognare già dai banchi del liceocome sappiamo tutti anche se facciamo finta di niente e anzi ne agevoliamo a volte la realizzazione con sollievo, la scuola è l’ultimo bastione contro l’indifferenza. Una nazione nasce e muore tra i banchi di una classe, dove si pensa a quale tipo di società si vuole appartenere e che tipo di comunità si vuole costruire. E dove si impara a non voltarsi dall’altra parte. Oggi a Milano Marittima, domani chissà. 

 

Foto di Marina Barbieri