A quindici anni dalla sua nascita, l’euro è rimasto senza padri né madri. Questa moneta, nata nei trattati come ‘’comune’’ e divenuta poi ‘’unica’’, è talmente unica da essere orfana. Nessuno che si assuma le decisioni di politica monetaria, nessuno che emetta debito comune, nessuno che possa intervenire sul cambio. Nessuno che proponga di fare come negli Stati Uniti dove queste tre leve si azionano dal 1791.
La domanda che si pongono molti partiti euroscettici – dal Front National alla Lega e al Movimento Cinque Stelle – come milioni di persone e numerosi lettori di questo blog a questo punto è logica: si stava meglio prima? Si possono prendere alcuni indicatori per dare una risposta, mi scuso in anticipo per l’uso dell’accetta.Il primo l’ha fornito un’analisi del World Economic Forum. Alla domanda posta da YouGov se la globalizzazione avesse migliorato le condizioni di vita, gli esiti del campione sono stati netti e sorprendenti. Solo per cinesi (45%) e indonesiani (23%) le risposte sono affermative. Il resto del mondo ha bocciato senza appello il fatto più importante nella recente storia contemporanea dell’uomo dopo la fine del comunismo. Negli Usa (65%), in Gran Bretagna (65%), in Germania (59%), in Francia (81%!), persino ad Hong Kong (71%) e negli Emirati Arabi Uniti (60%), una solida maggioranza ha detto di stare peggio. Questo passaggio epocale, che ha tirato via dalla miseria un miliardo di persone, ha trascinato nella precarietà milioni di individui, in Italia come in Europa. Un esempio su tutti spiega questa evoluzione: nel 1990 a Detroit le tre big dell’auto (General Motors, Ford e Crysler) valevano in borsa 36 miliardi di dollari e occupavano un milione e 200 mila lavoratori. Nel 2014 le compagnie della Silicon Valley capitalizzavano circa 1.000 miliardi di dollari con appena 137.000 dipendenti. L’euro è quindi nato nell’era della dematerializzazione del lavoro.Il secondo indicatore, calato nella realtà italiana è di tipo macroeconomico. Il Pil tricolore, a fine 2002, complice la guerra post attacco alle Twin Towers di New York e la recessione conseguente, crebbe dello 0,9%, più o meno quello che è accaduto a fine 2016. Da allora però, le annate sopra l’1% e in alcuni casi il 2% di crescita, furono solo quelle che vanno dal 2004 al 2007. Un dato positivo che si tende a scordare. Il debito pubblico in termini assoluti dal 2001 è aumentato di circa 500 miliardi di euro e dal 108% del Pil si è ora portato oltre il 133%, mentre il deficit sul Pil era al 3,3% a fine 2001 e ora viaggia, grazie a varie flessibilità, intorno al 2,4%. Molto peggio ha fatto la disoccupazione: dall’8,8% di fine dicembre 2001 il tasso è arrivato all’11,9% di dicembre 2016. Il rapporto invece dell’export sulla ricchezza nazionale ha avuto degli ottimi anni tra il 2009 e il 2011 ed è uno dei motivi per cui il paese ha retto alla crisi finanziaria. Il bilancio, insomma, è negativo.
Non va meglio per la finanza privata. La borsa non è tornata ai livelli pre-crack Lehman Brothers, moltissimi marchi nazionali hanno cambiato bandiera. Se un’azienda italiana finisce nelle mire di una europea passa di mano senza colpo ferire, in virtù della libera circolazione dei capitali che quasi mai coincide però con la difesa della ricchezza nazionale.
Ma deve far riflettere anche il banco della spesa, il terzo elemento di ragionamento, perché gli italiani giudicano l’Europa col portafogli e non col cuore. Aggiornando i dati di Federconsumatori, già a corredo de L’Euro è di tutti e confrontando i prezzi dei maggiori prodotti di largo consumo nel 2002 con quelli del 2016, tolta l’inflazione, c’è ben poco da gioire. Un chilo di spaghetti ha subìto un aumento del 47%, analoga quantità di riso si è impennata del 58%, sei uova costano il 47% in più, carne di vitello (+73%), sogliola al chilo (+69%), passata di pomodoro (+55%), persino il cibo un tempo dei poveri come le patate (+80%) non sono stati da meno. I motivi di questa perdita di potere d’acquisto si possono rinvenire in tre elementi: cambio sfavorevole (1936,27 lire per un euro), arrotondamento prima del changeover, controllo inefficace durante il periodo di doppia circolazione e conseguente speculazione. Sostenere che con il nuovo conio ci hanno perso tutti è però sbagliato come sostenere che quando Piazza Affari crolla si bruciano miliardi. La ricchezza passa solo di mano, si pensi al raddoppio degli affitti.
I fatti sommariamente elencati, conducono molti a sostenere che per l’Italia è meglio uscire dall’euro per riacquisire la sovranità monetaria, la penetrazione sui mercati e il potere d’acquisto perduto. Tornare alla lira non è però proponibile, se allo stesso tempo non lo fanno anche Francia (forse, se vince Marine Le Pen alle presidenziali) e Germania (difficile). Ormai siamo legati mani e piedi a questi due paesi fondatori, ma il problema della valuta Frankenstein senza padri c’è. Lo ammettono illustri costituzionalisti. Il presidente emerito della Consulta, Gustavo Zagrebelsky, intervistato dal Fatto, non ha escluso un referendum informale sull’euro per avere un’idea di massima degli orientamenti dei cittadini, Giuliano Amato ha scritto che ‘’è stata fatta una moneta senza uno Stato’’.
Che fare allora? Alcuni economisti propongono una riedizione dello Sme, il Sistema Monetario Europeo, con bande di oscillazione per ciascuna moneta nazionale rispetto all’euro che resterebbe valuta comune di riferimento. Un’alternativa più semplice, per un europeista come me, è invece quella di creare un Tesoro unico che emetta debito che poi può essere comprato direttamente dalla Banca centrale europea. Ma queste sono solo teorie, il tempo dei dibattiti è scaduto. Il prossimo sarà svolto direttamente nelle urne.

 

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