La vittoria della Francia ai Mondiali di calcio è un esempio mirabile di integrazione per tutti i progressisti ma diventa la prova della necessità di preservare la razza bianca per la destra. Riportiamo l’interessante riflessione di Francesco Maselli per la sua newsletter Marat il giorno prima della finale con la Croazia.
Martedì scorso ero in un piccolo villaggio al confine tra Francia e Italia a poco più di mezz’ora da Monginevro, sulle alpi francesi, per un primo sopralluogo per un reportage sulla percezione dell’immigrazione in una terra di confine. Quest’anno il flusso migratorio è stato molto meno forte rispetto alle estati precedenti, e quindi è un buon periodo per parlare con tranquillità con chi ha vissuto i momenti più duri , ci sono meno giornalisti in giro e gli abitanti del luogo hanno meno l’impressione di essere perseguitati dai reporter con telecamere, taccuini e registratori per porre, in fin dei conti, sempre le stesse domande. La sera si sarebbe giocata la semifinale del mondiale, Francia-Belgio, e il bar dove mi ero fermato per chiedere un caffè era già pronto per la trasmissione della partita: maxischermo, sedie e tavoli girati verso la televisione, gli annunci della diretta fin dal piccolo cortile che affaccia sulla superstrada.

Dopo avere pagato e chiacchierato un po’ con il gestore del bar, un altro dei clienti, un uomo sulla sessantina, abbronzato e con i capelli bianchi, mi dice che parla qualche parola di italiano, e che gli dispiace che l’Italia non ci sia al mondiale. Mai quanto dispiace a me, gli rispondo, augurandogli in ogni caso buona fortuna: in primo luogo perché ho rispetto dei rivali storici, in secondo perché la Francia è la mia seconda casa, e quindi sono felice se vince.

“Ma io non tifo Francia, tifo Croazia”, fa lui.
“Ah lei è croato”,
“No no, non sono croato, sono francese, ma capisce, mica si può tifare per questa squadra”,
“No scusi non capisco” ribatto io, che invece ho capito dove vuole arrivare, ma sono curioso di vedere fin dove si spinge,
“Questa squadra non è la Francia. Non c’è manco un francese”,
“Ma come scusi, sono praticamente nati tutti in Francia. Non sono bianchi, e quindi?”
“Vedrà, in finale toglierà pure i pochi francesi che ci sono”.

La conversazione mi ha colpito molto, perché il clima di questi mondiali è stato molto sereno e i riferimenti alla radice multietnica della nazionale pochissimi, quasi nulli. Ho incontrato un imbecille, è vero, anche se probabilmente la sua mancanza di pudore nel parlare a un giornalista in tal modo implica che nell’ambiente che frequenta questo genere di discorsi sono quotidiani e comunemente accettati. Per contrasto, direi che invece la nazionale francese è un esempio di ottima riuscita di integrazione e perché no, di assimilazione naturale. La Francia campione del mondo del 1998, al centro di moltissimi paragoni in queste settimane, è stata più di una nazionale: quando il 12 luglio milioni di persone si riversano sugli Champs Élysées per festeggiare l’impresa, non sono in strada soltanto perché è stata vinta una competizione internazionale. Per la prima volta una squadra di black-blanc-beur, neri, bianchi e arabi, emblema del melting pot, riusce a superare le divisioni e remare nella stessa direzione per raggiungere un risultato sportivo.

Simbolo della squadra e dell’integrazione era Zinédine Zidane, miglior giocatore, goleador e futuro capitano, francese di origine algerina lì a dimostrare che sì, la convivenza è possibile. La vittoria del 1998 ha assunto quindi un grandissimo significato politico, anche perché la politica ha, negli ultimi vent’anni, utilizzato gli alti e bassi dell’équipe de France per far passare dei messaggi che con lo sport c’entrano poco.

Un esempio su tutti: nel 2010 la nazionale si ribellò all’allenatore Raymond Domenech e allo staff, e venne duramente criticata non per l’assurdità di un gruppo di sportivi che dichiara “sciopero” durante la fase finale di un mondiale, ma perché rappresentazione della divisione in clan della squadra, del comunitarismo portato all’ennesima potenza non troppo diverso da quello presente nella società. Sul comportamento dei giocatori ci fu persino un’animatissima sessione all’Assemblea nazionale. Alla fine di quell’anno, il nuovo allenatore della nazionale, Laurent Blanc, finì al centro di uno scandalo per un estratto di una riunione tecnica al centro federale registrata e fatta filtrare alla stampa. I dirigenti in quell’occasione ragionavano su possibili quote per preservare il carattere “culturale” dei ragazzini convocati nelle nazionali giovanili:

Laurent Blanc: Chi sono attualmente i più alti, duri e forti? I neri (…) Credo che dobbiamo cambiare, soprattutto per dei ragazzini di 13-14 anni o 12-13 anni, e avere altri criteri, modificati secondo la nostra cultura. (…) Gli spagnoli me l’hanno detto: “Noi non abbiamo problemi, noi i neri non li abbiamo”.

Erick Mombaerts (allenatore della giovanile France espoirs): Affrontiamo il problema e limitiamo l’entrata ai ragazzini che possono cambiare nazionalità?

Laurent Blanc: Sì io sono favorevole.

François Blaquart (direttore tecnico della nazionale): Possiamo organizzarci, e senza dirlo, mettere in piedi una specie di quota. Ma non deve essere esplicito.

Erick Mombaerts: Quindi diciamo 30 per cento? (…) Alcuni club come il Lione lo fanno nel loro centro di formazione.

Francis Smerecki (allenatore della nazionale under 20): Io dico: in primo luogo, è discriminatorio.

Dopo la pubblicazione della registrazione da parte di Mediapart, la Federazione francese aprì un’inchiesta per impedire l’inserimento di quote implicite nei centri di formazione, Laurent Blanc prima negò di aver sostenuto simili tesi, poi si scusò ma non si dimise. La registrazione vi dà l’idea della sensibilità dell’argomento.

Se la vittoria del 1998 fu accompagnata da una retorica molto spinta sulla riuscita del modello francese, e quindi molto criticata dall’estrema destra e dal Front national di Jean-Marie Le Pen che aveva più volte dichiarato di non vedere la sua nazione in quella nazionale, stavolta lo sport è rimasto sport. Pochissimi articoli retorici sul successo dell’integrazione, nessuna domanda a sfondo politico durante le conferenze stampa, poche polemiche da parte dei calciatori che, e questo mi ha colpito, hanno mostrato un attaccamento alla nazione talmente naturale da passare quasi inosservato. Kylian Mbappé, vera star della nazionale a soli 19 anni, ha dato un’intervista al Monde pubblicata dopo la semifinale secondo me molto significativa: “Il mondiale è il fine ultimo. Nel club c’è la Champion’s League, che è il più importante trofeo europeo, ma la Coppa del mondo è un’altra cosa. E’ il paese. E non c’è nulla di più forte del paese. E’ straordinario poter dire che la felicità di tutti i francesi è nelle tue mani”, ha detto.

E’ giusto che un giocatore immigrato di terza generazione, con padre di origini camerunesi e madre di origini algerine, parli in modo così naturale del suo paese. Ed è giusto che questa prima frase non sia stata notata più di tanto dalla stampa. E’ quello che dice dopo a colpire, sia per il registro linguistico che per il concetto espresso: “Voglio incarnare la Francia, rappresentare la Francia e dare tutto per la Francia. Quando dai tutto per il tuo paese ne possono scaturire soltanto cose belle”.

Della Francia multiculturale, dello scontro tra una nazionale eterogenea e multietnica contro una squadra omogenea e cattolica come la Croazia ne stiamo parlando molto più noi in Italia di quanto ne discutano i francesi, basta leggere questo passaggio di un pezzo del Corriere della Sera pubblicato ieri: “La cosa che colpisce nel mondo di oggi è che saranno davanti una squadra, la Francia piena di fuoriclasse africani mescolati a buonissimi giocatori bianchi, e una squadra di soli bianchi al centro di tre grandi scuole, quella tedesca, quella slava e quella italiana. La Croazia porta spontaneamente dentro di sé i vantaggi della mescolanza che la Francia ha dovuto andare a cercare in altri continenti”.

In un paese, inutile negarlo, afflitto da enormi problemi di integrazione, impaurito dall’ulteriore immigrazione illegale tanto da spingere il suo ministro dell’Interno, Gérard Collomb, a utilizzare l’espressione “siamo sommersi dagli immigrati”, il fatto che questa nazionale sia stata vissuta in modo così laico e naturale è un ottimo segnale. Certo, essere in finale aiuta, ma l’approccio poco retorico e tutto concentrato sull’analisi sportiva è un indice di grande maturità del paese. A prescindere da come va a finire.

La Francia ha poi vinto il mondiale.

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