Pubblichiamo l’articolo apparso su la Repubblica per gentile concessione dell’autore.

di Paolo Rumiz

 

Trieste, ore 16.30 del 3 novembre 1918. Pioviggina. Sul mare un sipario di nebbia che si dirada. Un gigantesco ufficiale italiano di bella pancia e pizzo risorgimentale fieramente esibito varca la passerella del cacciatorpediniere “Audace” appena attraccato al molo San Carlo, batte lo scarpone sulla terraferma e proclama con voce altisonante: “Prendo possesso della città per conto di sua maestà il Re d’Italia”. E’ il generale Carlo Petitti, conte di Roreto, destinato a diventare governatore della città nei mesi delicati del trapasso. Prima di sera il Tricolore sventola sul castello di San Giusto, mentre le prime truppe italiane entrano a Trento.

Il giorno dopo, 4 novembre, il grosso dell’esercito entra nella città “cara al cuore” in preda all’anarchia e alla fame, e allora è davvero finita. I reggenti austriaci della città sono già partiti per Vienna. Dopo una guerra interminabile e un milione di morti fra le due parti, in Trentino e nella Venezia Giulia cinque secoli di dominazione austroungarica arrivano al fatale capolinea. Piazza dell’Unità, dedicata alle diverse genti dell’impero multilingue, diventa piazza dell’Unità d’Italia, simbolo di un risorgimento compiuto. L’idea di nazione fatta di un solo popolo ha vinto in una terra etnicamente “plurale”, con tutte le conseguenze che si vedranno.

Cosa è rimasto di tutto questo dopo un secolo? Quale eredità ci lascia il 4 novembre dopo cent’anni di celebrazioni, alzabandiera e sfilate di Bersaglieri in corsa? Siamo in grado di leggere criticamente gli eventi, specie ora, in un momento che vede scricchiolare di nuovo l’equilibrio continentale? E’ arrivato o no il tempo di dare a quella guerra un significato europeo capace di affratellarci? Per guardare le cose dal verso giusto basterebbe il luogo scelto per la commemorazione dell’evento, per l’appunto Piazza dell’Unità, di architettura totalmente austriaca, e l’intero “waterfront”, quasi identico all’ottavo distretto di Vienna. Ma è la città intera a parlare, inconfondibilmente mitteleuropea.

Per decenni, la “diversità” triestina, fatta anche di Sloveni, Austriaci, Cechi, Croati, Greci, Ebrei, Armeni, Serbi, è stata riconosciuta solo a denti stretti da Roma. L’Italia aveva incamerato terre che in certi casi italiane non erano affatto, come il Sudtirolo o il Tarvisiano, e per giustificarne il possesso davanti agli Alleati dopo la Grande Ecatombe, essa aveva dovuto imporre ai popoli “alloglotti” l’appartenenza alla nuova nazione. E così, quando l’Italia divenne fascista, il tedesco e lo sloveno divennero lingue proibite e a centinaia di migliaia di famiglie i cognomi furono cambiati per decreto.

Il risultato è che, ancora oggi, in tanti su questa frontiera fanno più fatica di altri italiani a capire la loro identità. A differenza dell’Sudtirolo, dove la questione è stata risolta dopo la seconda guerra mondiale, la presenza del comunismo di Tito alla frontiera del Nordest ha reso politicamente indiscutibile un’italianità che non fosse al mille per mille. La rimozione della “diversità” di confine è durata così fino alle soglie del Duemila, e rischia di riproporsi tuttora, con un risorgente antagonismo tra filo-austriaci e italianissimi, e soprattutto con gli ardori sovranisti della Lega. Al punto che oggi (3 novembre) la città si affaccia divisa alla ricorrenza, con un corteo nazionalista di Forza Nuova e una manifestazione concomitante del mondo antifascista. E il rischio di gravi turbolenze.

Per mezzo secolo Trieste è vissuta di memorie divise. Su tutto. Olio di ricino, oppressione degli Sloveni, italianizzazione dei toponimi, emarginazione e poi persecuzione degli Ebrei, guerra alla Jugoslavia, occupazione tedesca, Resistenza, vendette titine, Foibe, Risiera, Governo militare alleato dal ’45 al ’54, trattati di pace con la Jugoslavia. Polemiche e fantasmi a non finire. Con certe verità storiche non ancora digerite, come l’oscenità delle Leggi Razziali, proclamate dal Duce proprio a Trieste nel settembre del ’38, su cui una parte dell’attuale maggioranza di centrodestra in Municipio preferirebbe sorvolare.

Ma la madre di tutte le rimozioni è la sorte dei soldati austriaci figli delle nuove terre. Storia oscurata fino all’altroieri. Per decenni è stato bandito accennare agli italiani con la divisa “sbagliata”, quelli che hanno perso la guerra. Guai dire che essi avevano combattuto anche con onore, come il fratello di Alcide De Gasperi, insignito di medaglia d’oro sul fronte orientale. Quando l’Austria sconfitta consegnò all’Italia la lista dei suoi Caduti trentini e giuliani (oltre ventimila), indicandone i luoghi di sepoltura, il documento fu fatto sparire e i parenti lasciati all’oscuro sulla sorte dei loro cari. A fronte di Redipuglia, trentamila morti senza un fiore. Morti di seconda classe.

Tutto questo andrebbe riconosciuto senza paura, come il presidente Mattarella ha saputo fare qualche mese fa in Trentino, per l’adunata degli Alpini, portando una corona di fiori a un monumento ai soldati austroungarici. L’appartenenza all’Italia non deve temere le verità scomode, per esempio che la guerra è stata fatta per Trieste, ma anche in un certo senso contro Trieste e i suoi soldati, con i reduci imperiali di lingua italiana e slovena mandati con le buone o le cattive a  “rieducarsi” nel Sud Italia. Oppure che i prigionieri italiani restituiti dall’Austria furono chiusi in un ghetto del porto di Trieste come disertori e spesso lasciati morire di stenti.

Dovremmo temere molto di più lo sprofondamento nell’amnesia, in tempi in cui la memoria, anche tra i gestori della cosa pubblica, si riduce a un tweet sullo smartphone e la geopolitica a una playstation. Perché il rischio è che il grande rito passi nel torpore, se non nell’indifferenza, soprattutto dei più giovani. Le fanfare non bastano più. Non serve a nulla un evento commemorativo incapace di ammonire sulla ricorrente propensione dell’Europa a farsi del male. La guerra non è un evento sepolto per sempre.

Perché nel momento preciso in cui la guerra smette di far paura, ecco che – come accade oggi – la macchina dei reticolati, dei muri, della xenofobia e della discordia si rimette implacabilmente in moto e l’Europa torna a vacillare. A cent’anni di distanza, rischiamo per la terza volta uno sfacelo, con un’Italia che sembra fare di tutto per rompere con i partner d’occidente e schierarsi con i Paesi ex comunisti più euroscettici, facendo un regalo a Putin e a Trump. Riconoscere la diversità europea di Trieste non può che fare del bene al suo destino.