di Guido Stazi

 

In Italia e nel Regno Unito gli avvenimenti politici di agosto hanno riportato al centro del dibattito i parlamenti ed il loro ruolo al tempo del populismo digitale. A Roma sono stati riconvocati in pieno agosto senatori e deputati per parlamentarizzare la crisi di governo. A Londra il Premier ha chiesto e ottenuto dalla Regina una sospensione dei lavori parlamentari per impedire la presentazione e la votazione di mozioni dirette ad ulteriormente rinviare la Brexit; ma le opposizioni sono riuscite a presentare una proposta di legge in tal senso prima della chiusura del parlamento e a poche ore dal voto il deputato conservatore Philip Lee si è alzato dai banchi della maggioranza, ha attraversato l’aula e si è seduto tra i colleghi dell’opposizione; facendo così perdere la maggioranza a Boris Johnson e accusandolo di minacciare integrità, economia e democrazia del Regno Unito perseguendo la Brexit senza accordo. Nel dibattito britannico qualcuno ha accostato il populismo di Johnson, peraltro esponente dell’upper class con studi a Eton e Oxford, alla demagogia dei tribuni della plebe della Roma antica contro il Senato repubblicano, che spalancò le porte alla dittatura imperiale. Anche in Italia, con toni e argomenti di minore caratura culturale, si sono avanzate le medesime preoccupazioni, indirizzate alla possibile, forte ascesa in caso di elezioni anticipate di Matteo Salvini. La nuova maggioranza parlamentare che si è formata ha naturalmente trovato anche altri elementi di coesione, di cui tutti hanno parlato. E’ il caso però di alzare lo sguardo dalle polemiche politiche contingenti e volgerlo in modo distaccato e profondo alla dinamica delle istituzioni. E interrogarsi sul perché due parlamenti, molto diversi per origine e tradizione politica e costituzionale, hanno reagito per certi versi in modo simile alle sollecitazioni di due leader molto popolari, negando le loro aspettative. Il fatto è che il parlamento nello stato moderno nasce per limitare i poteri del sovrano (non lo stato ma il re), arginandone il dispotismo politico ed economico, aprendo la strada, nel seicento in Inghilterra e un secolo dopo nell’Europa continentale, agli stati liberali, alle rivoluzioni industriali, allo sviluppo economico favorito dagli scambi tra sistemi economici aperti. E anche le colonie inglesi in America, alla fine del settecento, al grido di no taxation without Representation, diedero inizio alla rivoluzione per l’indipendenza lamentando di non essere rappresentate nel parlamento inglese che imponeva loro le imposte, creandone quindi uno federale tutto loro. E’quindi alla sovranità dei parlamenti che dobbiamo gli assetti democratici ed economici a carattere liberale del mondo occidentale che, come diceva Winston Churchill, sono la peggior forma di governo fatta eccezione di tutte le altre. Insomma, il DNA dei parlamenti (dove siedono politici scelti dal corpo elettorale per rappresentare interessi diversi che lì devono trovare una composizione)alla fine dei conti prevale su trasformismi, opportunismi e altri aspetti meno commendevoli della politica politicante, mettendo in moto alla bisogna i suoi meccanismi stabilizzatori diretti a contenere possibili o ipotizzabili eccessi di potere. Anche nella più grande democrazia del mondo, quella americana, che esprime un presidente con pieni poteri, il parlamento può bocciare il bilancio e paralizzare l’amministrazione, come è successo all’inizio di quest’anno. E comunque, negli Stati Uniti, nel Regno Unito e perfino in Italia, prima o poi, si torna a votare.